Prova (1)

Sabato 11 ottobre, negli spazi della Fondazione Amendola di Torino, si è tenuta l’assemblea plenaria di Apical, organizzata nell’ambito degli Apical Days in collaborazione con Afrovision e Torino Music Meeting. Un momento di confronto aperto tra professionistə, attivistə e realtà del terzo settore, per discutere un tema sempre più urgente: il precariato nelle professioni a impatto sociale.

L’incontro, facilitato da Daniele Casolino, ha preso vita seguendo una metodologia di lavoro collaborativo, di confronto diretto in piccoli gruppi. Si è partiti da un esercizio semplice ma potente: descrivere il proprio lavoro in due parole. Un modo per mettere a fuoco identità, motivazioni, limiti e aspirazioni. Poi, a coppie, ogni partecipante ha condiviso le proprie preoccupazioni legate al lavoro: precarietà, mancanza di tutele, fatica emotiva, bisogno di riconoscimento. Dalla restituzione collettiva sono emerse parole-chiave che raccontano situazioni complesse: “cura”, “frammentazione”, “gerarchia”, “soldi”, “dignità”.

Ma non sono solo problemi: dalle conversazioni hanno preso forma idee e possibili vie d’uscita. Tra le ipotesi più vive:

Dal confronto, insomma, emerge un filo comune: il desiderio di rimettere la persona al centro del lavoro, di costruire spazi in cui etica, passione e sostenibilità possano finalmente incontrarsi senza essere schiacciate dalla precarietà.

Secondo l’Istat, infatti, il terzo settore in Italia conta oltre 870.000 enti attivi e coinvolge più di 6 milioni di persone, tra lavoratori e volontari. È una forza economica e sociale che contribuisce in modo significativo al PIL e alla coesione del Paese. Eppure, dietro questi numeri si nasconde una realtà contraddittoria: quella di chi lavora per generare valore collettivo ma vive in condizioni di instabilità cronica.

Diversi studi sottolineano che il lavoro nel non profit è spesso legato a contratti temporanei o di collaborazione, in parte per la natura progettuale dei finanziamenti pubblici e privati su cui si fonda il settore. Parallelamente, nel mondo della cultura — strettamente connesso al terzo settore — un’indagine condotta dall’associazione Mi Riconosci ha mostrato che circa il 70 % dei lavoratori percepisce meno di 8 euro l’ora netti, segnalando una svalutazione economica diffusa del lavoro culturale.

Nonostante questo, le professioni a impatto sociale restano fondamentali per la salute democratica delle comunità: educano, connettono, si prendono cura — ma raramente trovano riconoscimento proporzionato al loro valore.

Nel corso dell’assemblea, si è riflettuto su come la precarietà non sia solo economica, ma anche emotiva e relazionale. Chi lavora in questo campo sperimenta una fatica costante: sostenere gli altri senza sempre avere gli strumenti per sostenere sé stessə. In assenza di tutele stabili, la passione rischia di trasformarsi in auto-sfruttamento civico.

Da qui la necessità — condivisa durante la plenaria — di costruire comunità di pratiche e mutuo supporto, dove condividere competenze e strategie di sostenibilità. Perché la cura, per essere reale, deve iniziare da chi la esercita.

Una delle riflessioni più ricorrenti ha riguardato il bisogno di nuovi strumenti collettivi:

In questo senso, la sfida è politica e culturale insieme: ridefinire cosa intendiamo per lavoro “produttivo” e restituire centralità a chi costruisce capitale umano e sociale.

Tra i temi trasversali emersi, anche quello dell’intelligenza artificiale e dei suoi effetti sul lavoro. Un rapporto dell’International Labour Organization (2023), Generative AI and Jobs, mostra che l’impatto dell’automazione non consiste tanto nella sostituzione dei lavoratori, quanto nella trasformazione dei compiti e della qualità del lavoro. Se da un lato molte professioni — in particolare quelle relazionali e creative — sono forse meno automatizzabili, dall’altro la digitalizzazione impone di ripensare come valorizzare l’umano nel lavoro 

L’assemblea plenaria degli Apical Days non ha fornito soluzioni definitive — e forse non era quello l’obiettivo. È stato piuttosto un esercizio di ascolto e di visione condivisa: un modo per dire che la precarietà non è una colpa individuale, ma una questione collettiva e politica.
Il percorso continua da qui: nel confronto, nella costruzione di reti, nell’elaborazione di modelli nuovi di sostenibilità e partecipazione.

Perché chi lavora per generare impatto sociale non è una risorsa accessoria, ma un tassello essenziale del futuro che vogliamo costruire insieme.

A cura di Elisa Fiabane.