Prova (1)

In un’epoca dominata dall’iper-informazione e dall’automazione del sapere, il pensiero umano rischia di perdere la propria funzione generativa. La presente riflessione esplora le implicazioni culturali ed epistemologiche della crescente richiesta di risposte immediate e misurabili, in contrasto con la necessità – propria della condizione umana – di abitare la domanda. Viene inoltre analizzata la crisi della ricerca scientifica contemporanea, sempre più orientata alla produttività dei risultati e meno alla capacità di disarticolare certezze. Particolare attenzione è dedicata al ruolo dell’intelligenza artificiale e alle sue implicazioni sul piano epistemologico e pedagogico.

Viviamo immersi in una cultura che feticizza la risposta. L’informazione è divenuta moneta corrente, distribuita in tempo reale e disponibile ovunque, ma raramente problematizzata. Il pensiero critico rischia così di cedere il passo a un pensiero computazionale che non riflette, ma esegue. Ma l’informazione non è sapere: il sapere è lento, ha bisogno di tempo, di silenzi, di vuoti. La disponibilità immediata di dati e risposte suggerisce l’illusione che tutto sia conoscibile, prevedibile, addomesticabile. Ma ciò che viene meno è la capacità di abitare l’incertezza – una qualità squisitamente umana, che l’intelligenza artificiale non condivide. Se la macchina computa e deduce, l’essere umano immagina e disobbedisce, aprendo scenari nuovi proprio a partire da ciò che non sa. Come evidenziano studi recenti sull’epistemologia computazionale, l’intelligenza artificiale non è in grado di operare metacognizione (capacità di “ pensare al pensiero” o “pensare a come si pensa”) o autoriflessione, elementi centrali del pensiero umano. La nostra relazione con la conoscenza rischia così di trasformarsi in un consumo passivo di risposte invece che in una pratica attiva di interrogazione e senso.

A questa deriva non sfugge nemmeno il mondo accademico. Il paradigma scientifico odierno – soprattutto nei settori cosiddetti hard (https://it.wikipedia.org/wiki/Scienze_dure) – è sempre più improntato alla produzione di risultati. Le ricerche devono concludersi con un outcome pubblicabile, possibilmente misurabile, possibilmente spendibile. Questa logica ha ridotto la ricerca a un sistema industriale fondato su metriche, rendimenti e impatti immediati, con gravi conseguenze sulla libertà intellettuale. La domanda disfunzionale, quella che non genera ritorno economico o non conferma paradigmi esistenti, viene tacitamente esclusa. In questo modo, la scienza cessa di essere esercizio di libertà conoscitiva e si trasforma in sistema autoreferenziale. Il sapere diventa prestazione. L’incertezza viene percepita come fallimento, anziché come punto d’origine.

Alla crisi epistemologica della scienza contemporanea si aggiunge un ulteriore rischio, ben analizzato da Stefano Re nel suo saggio La Scienzah. Re denuncia una tendenza crescente: la trasformazione della scienza da metodo aperto e fallibile a nuovo sistema dogmatico, quasi religioso, in cui il dato diventa verità indiscutibile e chi solleva dubbi viene immediatamente etichettato come eretico o negazionista. Questo approccio – che l’autore definisce con ironia Scienzah, per sottolinearne il tono liturgico – non è più al servizio della ricerca, ma della conformità ideologica. La scienza, da strumento critico, diventa rituale legittimante di potere, utilizzato per semplificare complessità, evitare il conflitto epistemico e sedare il dissenso. Come scrive Re: Il problema non è la scienza. Il problema è la sua riduzione a strumento di fede, il suo uso come marchio d’autorità per sostituire il pensiero con l’obbedienza.

Einstein, che pure fu uno scienziato esemplare, non seguì mai fedelmente i dogmi del suo tempo. Le sue intuizioni nacquero da un pensiero laterale, immaginativo, non lineare. La meccanica quantistica, sviluppatasi anche grazie alle sue scoperte, oggi arriva persino a mettere in discussione alcuni suoi postulati. Questo non è un fallimento, ma il segno vitale di un pensiero che evolve contraddicendosi. Il vero atto di pensare non consiste nel trovare conferme, ma nel generare attrito, divergenza, possibilità. La filosofia oggi non deve produrre risposte ma richiamare l’urgenza delle domande, rompere l’inerzia del pensiero dominante e salvare ciò che conta. L’educazione dovrebbe tornare a coltivare questa capacità di resistenza generativa, come propongono le recenti teorie dell’educazione lenta e trasformativa. È necessario che anche i luoghi della formazione si liberino dall’ossessione valutativa e tornino a essere spazi di esplorazione, non solo di performance.

Questa crisi del pensiero ha anche una ricaduta politica preoccupante. I recenti tentativi di Donald Trump – riportati da più fonti giornalistiche – di limitare i finanziamenti alle università che promuovono visioni critiche, inclusive o semplicemente divergenti da quella del suo elettorato, non sono meri atti amministrativi. Sono tentativi di omologazione cognitiva, attacchi al diritto stesso di farsi domande non conformi. Anche in Europa, crescono le pressioni per orientare la ricerca in direzione utile, strategica o applicabile, limitando lo spazio per pensieri radicali, intersezionali o trasformativi. La crisi è globale: ciò che è incerto, aperto o non misurabile viene marginalizzato. La deriva è inquietante: la ricerca non può sopravvivere senza dissenso, e la libertà intellettuale è il primo spazio da difendere in ogni democrazia matura. Non è il pensiero critico a essere in crisi, ma il mondo che non lo vuole più ascoltare.

Serve oggi una nuova alleanza tra sapere e ignoranza. Non come rinuncia, ma come riconoscimento dei limiti della conoscenza e apertura all’inaspettato. Occorre tornare all’origine della domanda, in cui non è ciò che sappiamo a renderci umani, ma ciò che abbiamo il coraggio di non sapere. In un mondo che produce risposte sempre più rapide, la vera urgenza è rallentare e domandare. Non per paura dell’AI, ma per riscoprire una dimensione dell’intelligenza che le macchine non possono emulare: l’intuizione, il dubbio, il mistero. È tempo di reintegrare nella formazione – dalla scuola all’università – pratiche che stimolino la creatività critica, la lentezza del pensiero, la capacità di porre domande senza ansia di soluzione. Solo così potremo tornare a educare cittadini pensanti, non utenti esecutori.

A cura di Daniele Casolino.

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