L’importanza dello sciopero per Gaza
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Perché nel 2025 manifestare dissenso scioperando è utile.

In questi giorni, dopo la grande adesione allo sciopero del 22 settembre 2025, l’opinione pubblica si divide fra chi critica e chi applaude lo sciopero nazionale per Gaza. I membri del governo condannano le mobilitazioni dal basso come azioni “pro-caos”, frutto delle campagne di “sindacati irresponsabili che aizzano le piazze” (M. Salvini), e considerano le azioni della Global Sumud Flotilla “inutili per la Palestina e dannose per il popolo italiano” (G. Meloni). La presidente del consiglio ci tiene a specificare, parlando del nuovo sciopero nazionale indetto per il 03/10/2025, come “un week-end lungo, che non sta insieme alla rivoluzione” (immaginiamo che in italiano corretto intendesse dire che lo sciopero è una mera scusa per “non andare a lavorare”, escamotage oratorio fra l’altro ampiamente adottato dai sostenitori del governo per screditare un’azione umanitaria coraggiosa e una mobilitazione civile impressionante).
In realtà, lo sciopero da sempre è un forte strumento di manifestazione del dissenso, presente già nel mondo preindustriale, ma che ha assunto la forma che oggi conosciamo con le Rivoluzioni Industriali iniziate nel XVIII secolo. Nacque come forma di protesta collettiva dei lavoratori per difendere interessi economici, sociali e politici (quindi anche difendere i propri o gli altrui diritti ed influenzare le decisioni istituzionali). Ad oggi, lo sciopero in Italia è un diritto, tutelato dall’articolo 40 della Costituzione, che ha permesso delle svolte sociali come la riduzione dell’orario di lavoro e miglioramenti salariali (1919), lo sciopero generale antifascista (1943) che ha aperto la strada alla Resistenza, ai diritti relativi al divorzio (1970) e l’aborto (1978).
Ha senso scioperare nel 2025? La complicità italiana nello sterminio
La domanda che molti si pongono è se lo sciopero abbia ancora la stessa valenza e potere politico di un tempo. I più critici si chiederanno che senso abbia bloccare i trasporti pubblici e creare disagi alla popolazione per Gaza, come se lo sciopero italiano avesse qualche effetto diretto sulla guerra.
La risposta sta nell’analisi del contesto internazionale e nella valutazione del coinvolgimento effettivo dell’Italia nell’assedio. Recita una notizia di SkyTg24: “Nell’estate del 2025 diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina e hanno ufficializzato la loro posizione a settembre, in occasione dell’Assemblea generale ONU a New York: dalla Francia al Regno Unito, da Malta al Portogallo, fino a Canada e Australia. I membri delle Nazioni Unite che negli anni hanno preso questa decisione sono oltre 150 su 193. Tra loro non ci sono l’Italia e gli Stati Uniti.”
L’Italia quindi, nonostante le controverse e contraddittorie dichiarazioni rilasciate alla stampa, si accosta alla posizione di Stati Uniti e Germania, non riconoscendo lo Stato Palestinese poiché sarebbe “controproducente”.
Scioperare oggi significa mostrare forte dissenso e generare disagio di fronte a posizioni politiche che per molti italiani sono semplicemente inaccettabili. Oltre alle sole scelte politiche, entra in campo un fattore enorme, ovvero la complicità e la collaborazione dello Stato italiano nel genocidio dei Palestinesi attraverso accordi commerciali e finanziari. Come segnalato nel report di F. Albanese *From economy of occupation to economy of genocide*, molti finanziamenti, anche pubblici, raggiungono le azioni militari di Israele. Fra gli investimenti in Elbyt Systems e il coinvolgimento di Leonardo S.p.A. (al 30% statale) nella fabbricazione di armi, la questione palestinese non è affatto esterna alle nostre vite.
I nostri soldi pubblici finanziano indirettamente e direttamente il genocidio in atto. Scioperare, bloccare i servizi pubblici ed il sistema di produzione del valore, il lavoro su cui si fonda la nostra Repubblica, è un atto politico necessario per non rimanere in silenzio di fronte alle oscenità in atto, che verranno ricordate nella storia come l’ennesimo obbrobrio del diritto internazionale, dove la crisi degli organismi sovranazionali si è manifestata in tutta la sua gravità, poiché impotenti di fronte a uno Stato criminale ed i suoi complici.
Le risposte del governo alla mobilitazione pubblica
Il presidente del consiglio ed i suoi ministri non hanno tardato nell’esprimere la loro disapprovazione per le manifestazioni e gli scioperi organizzati dal basso. Il Ministro Salvini si è apprestato a condividere video di casi isolati di manifestazione violenta nella stazione di Milano Centrale, per screditare invece l’ammirevole adesione e partecipazione riscontrata il 22 settembre, pacifista e non violenta. Non è stato l’unico esponente di estrema destra a cavalcare l’onda dell’indignazione mediatica per danneggiare l’immagine di una protesta che ha visto una quantità e una qualità di persone difficilmente ignorabile.
Sosteniamo l’idea che l’atto coraggioso di organizzarsi e reagire dal basso della Global Sumud Flotilla, non sopportando l’inadempienza delle istituzioni nell’attuare il diritto internazionale violato ormai da due anni da Israele, sia stato l’atto che ha scatenato una reazione di mobilitazione sociale e abbia intensificato l’attenzione mediatica sulla questione palestinese.
La reazione dei governi italiano ed israeliano, di condanna paternalistica da un lato e di accusa di terrorismo dall’altro, ha reso ormai palese quali siano le reali posizioni dei due. Svilimento, disinformazione, biasimo, censura, manipolazione politica: la risposta di un’oligarchia che non sa gestire il malcontento e l’attrito che la riguardano.
Il blocco dei trasporti pubblici
Perché bloccare i trasporti pubblici? Perché impedire ai cittadini di andare a lavoro, di muoversi liberamente?
Non siamo egoistə
In condizioni di crisi umanitarie come queste, spingiamoci oltre l’ombra del nostro naso, fuori dalla bolla dell’egoismo. A tutti in questi giorni darà fastidio la difficoltà nel raggiungere casa, nell’andare a trovare un amico o la famiglia o il partner, nell’andare in gita fuori porta. Ricordiamoci che il nostro piccolo disagio quotidiano, nato dalla necessità di far sentire la voce della disapprovazione nei confronti delle imprese militari di Israele a Gaza e contro la Flotilla (illegali, fra l’altro), non è nulla di fronte al peso della morte e della distruzione che il nostro Belpaese si porterà sulla coscienza negli anni a venire.
A cura di Giovanna Borrelli.
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