Le malattie del precariato.
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Quando la salute si perde nell’incertezza

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute non come semplice assenza di malattia, ma come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”.
Eppure, se guardiamo al presente, questa definizione appare come un miraggio che si allontana sempre di più, soprattutto per la nuova classe lavoratrice precaria. Non tanto perché manchino medici, ospedali o farmaci, ma perché manca ciò che rende la vita degna di essere vissuta: la continuità, la sicurezza, la possibilità di immaginare un futuro.
Il precariato è diventato la condizione esistenziale di milioni di persone. Non parlo soltanto di chi lavora a chiamata o a progetto, dei riders o dei freelance travestiti da imprenditori: il precario è colui che non sa se potrà permettersi l’affitto il mese prossimo, se avrà un contratto rinnovato, se la propria laurea sarà mai più di un pezzo di carta. È colui che non può fermarsi a programmare la vita, perché la vita gli sfugge dalle mani, un giorno dopo l’altro.
Riporto qui la definizione di Burnout, data dalla enciclopedia Treccani:
“burn-out, sindrome da stato patologico (dall’ingl. «bruciare completamente») che si verifica in individui che svolgono professioni di aiuto. Ne sono interessati medici, poliziotti, infermieri, psicologi, ecc. Il b. compare in figure professionali che devono sostenere in modo adeguato il proprio stress psicoemotivo e quello della persona assistita. Se la fase di logoramento psicologico non è gestita o non risulta controllata, si osserva una progressione del danno psichico e fisico che può evolvere fino al suicidio.”
E qui si consuma una contraddizione che ferisce: chi non lavora così tanto da consumarsi in ufficio fino a notte, conosce comunque i sintomi del burnout. Un burnout paradossale, fatto non di eccesso ma di vuoto. Non di superlavoro, ma di superattesa. Non di ore stracolme, ma di ore perse, frammentate, spezzate. È l’esaurimento che nasce dal non poter abitare il tempo, dal non potersi concedere un ritmo.
La psiche ne porta i segni: ansia, insonnia, depressione, senso di colpa. Il precario si autoaccusa, convinto di non aver fatto abbastanza, di non valere abbastanza, di non essere abbastanza. La logica neoliberale ha colonizzato l’anima: non è più il padrone che sorveglia, ma l’individuo stesso che si sorveglia, che si misura, che si punisce. Non si tratta più di biopolitica, ma di psicopolitica: non è più il corpo ad essere disciplinato, ma lo spirito a essere sfruttato.
In questo quadro, la salute – quella promessa universale della Costituzione e delle Carte internazionali – diventa privilegio di pochi. Perché come si può parlare di salute se manca l’ossigeno della stabilità sociale? Come si può parlare di benessere quando il corpo si sveglia ogni mattina senza sapere se potrà sostenere se stesso e chi ama?
E c’è di più. Il precariato non riguarda solo chi lo vive oggi. Come un’epigenetica sociale, questa condizione si trasmette di generazione in generazione. Chi cresce in famiglie precarie assorbe nel corpo il linguaggio dell’incertezza: impara che i progetti non durano, che i sogni si fermano davanti alla scadenza di un contratto, che la speranza stessa è merce a termine. Così si moltiplica il fenomeno dei Neet – giovani che non studiano, non lavorano, non si formano – non per pigrizia, ma perché hanno interiorizzato la logica del “non c’è posto per me”. È una ferita ereditaria, che attraversa il tempo e rischia di segnare intere generazioni.
Che ne è, allora, della salute? È ancora quell’ideale di benessere completo o si è trasformata in una parola vuota, che serve a misurare l’efficienza di sistemi sanitari più che la qualità delle vite? La salute non è un lusso individuale, ma un patto collettivo. E oggi questo patto è stato spezzato.
Per questo credo che occorra avere il coraggio di guardare in faccia il precariato non solo come condizione economica, ma come vera e propria malattia sociale. Non per patologizzare chi la vive – al contrario – ma per riconoscere che il corpo e la mente soffrono quando la società abdica alla propria responsabilità.
Il burnout del precario ci interroga. Non è l’affaticamento di chi lavora troppo, ma la stanchezza di chi non riesce a trasformare il proprio lavoro in vita. È la fatica di esistere senza un luogo di riconoscimento, senza un noi che protegga, senza comunità. E forse è qui il nodo: la solitudine del precariato non è destino naturale, ma progetto politico.
Allora la domanda resta sospesa: come possiamo curare non solo i corpi, ma le strutture che li fanno ammalare? Come possiamo ritessere un noi in cui la salute torni ad essere diritto, e non privilegio?
Non ho risposte definitive. Ma so che il primo passo è smettere di ridurre la sofferenza a un fatto individuale. Riconoscere che dietro ogni sintomo c’è una società che lo genera, e che nessuna terapia potrà mai bastare se non impariamo di nuovo a prenderci cura insieme.
A cura di Daniele Casolino.
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