Le città stanno cambiando il nostro DNA
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E anche quello delle altre specie. Ma siamo sicurə che sia la direzione giusta?

Per migliaia di anni l’essere umano ha vissuto in stretta relazione con la natura.
Poi, lentamente, abbiamo cominciato a costruire spazi sempre più a nostra misura: case, strade, città.
Abbiamo progettato luoghi che rispondono solo ai nostri bisogni, dimenticando che non siamo soli sul pianeta.
L’uomo ha sempre preso sé stesso come misura di tutte le cose, come unico metro con cui misurare la realtà.
Questo fenomeno è dovuto al limite dello schema binario che contraddistingue il pensiero umano. Avere troppe opzioni non è gradito, il cervello non ha capacità di calcolo sufficiente per determinare il contributo di ognuno dei vari parametri per avere una decisione oculata. È più semplice non scegliere che scegliere tra troppe possibilità. Tendiamo a semplificare senza però cogliere i limiti di questo schema mentale.
Rimuovendo la natura abbiamo iniziato a percepirci al di fuori e al di sopra e le città sono l’esempio più evidente di questa separazione. Nate per essere efficienti, ordinate, controllabili, hanno progressivamente cancellato gli spazi naturali. Oggi oltre il 55% della popolazione mondiale vive in ambienti urbani, e si stima che entro il 2070 questa cifra salirà al 70%.
Eppure, le città occupano meno del 3% della superficie terrestre.
Questo significa che una porzione minima del pianeta è sottoposta a una pressione ecologica enorme.
Gli effetti sono ovunque: la frammentazione degli habitat, la scomparsa di molte specie, ma anche nuove forme di adattamento. Alcuni uccelli hanno cambiato il modo in cui cantano per farsi sentire nel rumore cittadino e numerose piantestanno modificando i loro sistemi di difesa.
In pratica, l’evoluzione biologica si sta adattando all’ambiente urbano.
Ma non cambia solo la biodiversità. Cambiamo anche noi, e da specie generalista stiamo diventando sempre più specista.
L’urbanizzazione modifica i nostri corpi, i nostri comportamenti, le nostre relazioni. Cambia il nostro metabolismo sociale: seguendo la legge di Keibler oggi ogni essere umano consuma in media 12.000 watt di energia, come se avesse una massa di 15 tonnellate.
E questo modello non è più sostenibile.
Le città, così come le abbiamo progettate finora, sono inefficienti, energivore, fragili. Producono il 70% delle emissioni di CO₂, consumano oltre il 75% delle risorse naturali e generano il 70% dei rifiuti globali.
Ma non tutto è perduto: possiamo trasformare le città in ecosistemi viventi, che integrano la natura invece di respingerla.
Possiamo ispirarci al mondo vegetale, alla sua organizzazione diffusa, resiliente e collaborativa.
Possiamo ripensare l’urbanistica come un processo evolutivo e collettivo, in cui ogni cittadino ha un ruolo.
Serve una rivoluzione culturale prima ancora che tecnologica.
Un nuovo modo di pensare la città non solo come luogo dell’uomo, ma come spazio condiviso con tutte le forme di vita.
In fondo, la vera sfida del nostro tempo è questa: non come sopravvivere alla crisi climatica, ma come imparare di nuovo a vivere nel mondo.
A cura di Lorena Piccinini.
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