Prova

Il recente referendum non ha raggiunto il quorum, ma c’è un dato che merita attenzione: mentre i primi quattro quesiti hanno ottenuto circa il 90% di voti favorevoli, il quinto – quello sull’estensione della cittadinanza – si è fermato al 65%.

Un segnale chiaro: una parte consistente dei votanti ha detto sì a più diritti per sé, ma no alla possibilità che quegli stessi diritti valgano anche per chi oggi è escluso. È come se il messaggio implicito fosse: “un lavoro più giusto va bene, ma solo per chi è già dentro”. Una logica che alimenta la competizione tra marginalità, tra poverə, tra esclusə. E che rende sempre più fragile il fronte dei diritti, quando non è costruito su basi comuni e solidali.

Ma questo voto racconta anche altro: la fatica culturale del nostro tempo nel reggere la complessità. Troppo spesso le scelte politiche e sociali non nascono da un’elaborazione profonda, ma da un bisogno di semplificazione. O sei con o sei contro. Pro-vax o no-vax, Israele o Palestina, mercato o progresso. Il pensiero si appiattisce in appartenenze tribali. Non si pensa: si aderisce. Non si comprende: si prende parte.

In questo scenario, i risultati del referendum non sono solo un problema politico, ma un sintomo di un disimpegno più profondo. Non è solo astensione elettorale: è astensione esistenziale. Una rinuncia silenziosa alla responsabilità di partecipare, comprendere, agire. Anche quando si vota, spesso lo si fa per difendere interessi individuali, senza allargare lo sguardo agli altri.

Non possiamo ridurre tutto alla retorica delle destre. Questo voto è anche il frutto di anni in cui media, istituzioni e persino la scuola hanno evitato di affrontare davvero il tema della cittadinanza, riducendolo spesso a una questione burocratica o emergenziale. Una narrazione che trasforma persone in numeri, storie in minacce, e che ha abituato l’opinione pubblica a pensare in termini di esclusione, non di condivisione.

Eppure, la democrazia non è un gioco a somma zero. Non si misura solo con i numeri, ma con la qualità della partecipazione, con la capacità di accogliere la complessità, di fare delle differenze una risorsa. Una democrazia vera è pluralista, non tribale. Aperta, non chiusa. In divenire, non fissata una volta per tutte.

Serve un nuovo paradigma culturale, un pensiero che torni a mettere al centro la relazione, l’ascolto, la dignità. Ce lo dicono filosofi, educatori, scienziati: Roberto Mancini, Daniela Lucangeli, Stefano Mancuso, Byung-Chul Han. Ce lo insegna anche la fisica contemporanea: la realtà non è oggettiva, ma co-costruita. Le idee non servono se non costruiscono ponti.

Abbiamo dimenticato che la coscienza si forma nella relazione, che la filosofia era – per Platone – una cura dell’anima e della polis. Abbiamo bisogno di un’ecologia del pensiero, non solo di nuove politiche.

Solo così potremo uscire dall’inerzia, dal cinismo, dalla rassegnazione. Solo così potremo riscoprire una democrazia vera, viva, imperfetta – e proprio per questo profondamente umana.

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