Prova

Nel pieno di crisi globali sempre più drammatiche, tra guerre che sembrano non finire mai e tensioni internazionali alimentate da retoriche muscolari, torna – come ogni anno – la celebrazione del 2 giugno, Festa della Repubblica. Le parate militari che ne scandiscono le celebrazioni ufficiali sono per alcuni un richiamo a valori di coesione nazionale; per altri, diventano un rito stonato, specie in tempi in cui i conflitti reali sono vivi, dolorosi, sanguinosi. Che senso ha oggi una sfilata di armi?

Per riflettere su questo, abbiamo ascoltato Vito Alfieri Fontana, una voce che conosce la guerra da dentro. Ingegnere, nato a Bari nel 1956, per anni ha diretto un’azienda che produceva mine antiuomo. Un giorno, però, qualcosa si spezza. Lascia il lavoro, risponde a una chiamata più profonda, e diventa sminatore volontario nei Balcani. Nel suo libro, Ero l’uomo della guerra. La mia vita da fabbricante di armi a sminatore, e nelle sue azioni concrete, porta avanti una visione radicalmente umana e operativa della pace: non ideologica, ma fatta di lavoro, giustizia, responsabilità. A partire anche – sorprendentemente – dalle forze armate.

Le parole di Vito Alfieri Fontana

Siamo sempre là. È il militarismo che inquina le coscienze. Un militare, di per sé, dovrebbe essere educato al rispetto delle persone e della Costituzione. Dovrebbe seguire il popolo, non servire il potere. Ed è per questo che io non sono contro l’esistenza dell’esercito: sono contro il suo uso distorto.

Fontana parte da qui: non da una contrapposizione, ma da una proposta.

Io penso che dovremmo moltiplicare i reparti in grado di intervenire in caso di catastrofi naturali, di emergenze civili, in stretta sinergia con la Protezione Civile e con le comunità. Non solo ordine pubblico, ma protezione pubblica. La divisa deve integrarsi col popolo, non separarsene.

Contro una visione ideologica della guerra e della pace, Fontana propone la concretezza:

Io non sono un pacifista. Sono contro la guerra. Diceva Gino Strada. La guerra è l’extrema ratio che non risolve mai nulla. Provoca danni maggiori di quelli che dovrebbe risolvere. E la vendetta non funziona mai. Dopo l’11 settembre si è fatto guerra in Afghanistan, ora a Gaza… e siamo ancora lì, tra stragi e distruzione. Avessero provato con la pace, forse oggi ci sarebbe meno odio.

Cita esperienze vissute in prima persona, sul campo: in Bosnia e Kosovo, dove ha operato come sminatore.

Dove c’è lavoro, le comunità convivono. L’ho visto. In Bosnia abbiamo bonificato una grande fabbrica metallurgica statale, smembrata dopo la guerra. In quell’area sono sorte venti piccole industrie. I lavoratori di prima sono tornati. Anche quelli dell’altra parte del confine. Si lavora insieme. Questo è costruire la pace.

Il punto, per Fontana, è che la pace si costruisce in una generazione, e non nell’arco di un mandato elettorale.

Bisogna spegnere l’odio per vent’anni col lavoro. Anche se improduttivo, anche se in perdita. Non importa se ci vogliono trenta persone per fare quello che altrove fanno in quindici. Se è per la pace, va fatto.

Anche le armi, dice, devono essere accompagnate dalla consapevolezza.

Sono strumenti di morte. Si devono usare solo con estremo dolore. Bisogna educare al dolore della guerra, alla responsabilità che comporta. Altrimenti si rischia di spersonalizzare tutto. Ecco perché serve una cultura della pace.

Fontana insiste su un concetto chiave:

La pace va organizzata, va resa possibile. Io ho lavorato vent’anni con fondi delle Nazioni Unite. Li conosco, so i loro limiti. Ma quando vengono chiamati a costruire lavoro, lo fanno. Non solo campi profughi, che diventano incubatori di nuove tensioni. Ma lavoro vero, dignitoso.

E racconta un episodio simbolico.

Nel 1999 in Kosovo, i profughi sono tornati in massa prima del previsto. Molte case distrutte. Hanno piantato tende davanti alle rovine. E la prima cosa che hanno fatto è stato riaprire le scuole. Alle sei del mattino, con il freddo, vedevi i bambini in fila, con gli zainetti, andare a scuola. Un impulso alla normalità, incredibile. Poi hanno chiesto cemento, tegole, mattoni. Hanno ricostruito tutto da soli. Il lavoro ha spento l’animosità.

Io credo che invece di spendere per le armi, dovremmo spendere per ospedali da campo, centri di formazione, distribuzione di sementi, microcredito, artigianato. Costruire ponti, non confini. Anche i militari dovrebbero essere accompagnati a questa consapevolezza. Non sono una razza a parte. Sono uomini. E l’uniforme non deve disumanizzare.

E conclude con lucidità:

Fare la guerra è la cosa più facile del mondo. Trovi sempre un generale che ti promette di risolvere tutto in due settimane. Ma poi ci si impantana, e cominciano anni e anni di sofferenze. Diamo una chance alla pace. Organizziamola. E smettiamola di considerarla un’utopia. È la cosa più realistica che possiamo fare.

Di seguito la versione integrale dell’ intervista a Vito Alfieri Fontana

Siamo sempre lì. È il militarismo che inquina le coscienze. Un militare, di per sé, dovrebbe essere conformato al rispetto delle persone e della Costituzione. Deve seguire il popolo, non servire il potere. Per questo, piuttosto che opporsi a priori, bisognerebbe cercare il miglior utilizzo possibile di una forza che, per me, è necessaria.

Bisognerebbe moltiplicare i reparti in grado di intervenire in occasione di catastrofi naturali. Integrare meglio l’Esercito con la Protezione Civile, creare regie comuni, attive 24 ore su 24, tutto l’anno. Non solo per l’ordine pubblico, ma per la protezione delle persone. Una logica di difesa vera, in caso di calamità naturali, attacchi, disastri. Una maggiore integrazione degli uomini in divisa con il popolo che devono proteggere.

Altrimenti si lascia questa gente — che molto spesso è bravissima — in mano ai cosiddetti militaristi, quelli che vogliono fare dei militari una razza a parte, con il diritto di decidere su tutto.

Io non sono un pacifista. Sono contro la guerra. La guerra è l’extrema ratio che non risolve mai nulla. I danni che produce sono sempre più gravi dei problemi che pretende di risolvere. E la vendetta non funziona. Dopo l’11 settembre si è fatto guerra all’Afghanistan. Dopo il 7 ottobre, a Gaza. E stiamo ancora lì. Avessero provato con la pace, forse oggi ci sarebbe meno odio e più giustizia.

La pace è tranquillità tra comunità. Significa giustizia nella distribuzione delle risorse, delle infrastrutture. Quando si avverte un pericolo, bisogna lavorare per creare benessere tra le comunità, smorzare le tensioni. La mia esperienza sul campo mi dice che, se si mettono le persone in condizione di tornare al mercato, all’economia reale, il 90% dei conflitti si spegne.

In Bosnia abbiamo bonificato una grande fabbrica metallurgica statale. In quell’area sono nate venti piccole imprese che hanno ridato lavoro agli operai. Questo porta pace. Anche in Kosovo, dove i boscaioli kosovari portano legname alle segherie serbe: la gente vuole lavorare, non spararsi. Il lavoro unisce.

Il problema è che i nostri politici non vanno oltre il proprio mandato elettorale. Ma la pace si costruisce in una generazione. Bisogna spegnere le pensioni per vent’anni col lavoro. Anche se è lavoro in perdita, poco produttivo. Se l’obiettivo è la pace, si deve fare.

Le Nazioni Unite hanno tutti gli strumenti per farlo. Se dici loro: “Create lavoro per vent’anni”, lo fanno. Non solo campi profughi. Perché i campi, se non gestiti, diventano fucine di odio, serbatoi di rabbia e disperazione. Persone abituate a una casa, costrette a vivere in latrine comuni, senz’acqua. Parliamo di centinaia di migliaia di esseri umani. Bisogna creare opportunità dignitose. Altrimenti tornano le armi. Che sono facili da produrre. E ancora più facili da invocare.

Io credo molto in un’economia del lavoro, non del denaro. Un padre che trasmette la voglia di lavorare al figlio compie un atto rivoluzionario. In Kosovo, nel settembre 1999, i profughi sono tornati prima del previsto. Le Nazioni Unite avevano chiesto di aspettare dicembre. Invece, tra il 15 e il 30 settembre, tornarono a migliaia. Le case erano distrutte, hanno piantato le tende e riaperto le scuole. Ogni mattina, alle sei, con il freddo, vedevi i bambini in fila, con gli zaini. Un impeto verso la normalità.

Hanno ricostruito le case con travi, tegole, cemento. Il lavoro ha davvero spento le animosità. Certo, ci saranno sempre rigurgiti nazionalisti. Ma se c’è qualcosa da fare, la gente preferisce lavorare che combattere.

Quando fabbricavo mine, vedevo solo metallo. Ma poi, grazie a mio figlio, ho capito che dietro ogni pezzo di metallo c’è una persona. Ho dovuto rimettere tutto in discussione. C’è l’idea, nel lavoro militare, che uno stia solo “facendo il proprio dovere”. Ma le armi sono strumenti di morte. Vanno usate, se proprio necessario, con dolore. Serve educazione al dolore della guerra. Chi le usa deve sapere cosa provoca.

La società civile ha un compito fondamentale: accompagnare alla consapevolezza. Perché se no ti dicono “Ah, pacifista, comunista, ci vuoi levare la casa…”. Non è così. Dopo ogni guerra, quasi sempre si ricostruisce con chi ha combattuto. E spesso c’è pentimento. Non tanto per il male fatto, ma per la sua inutilità. Se si fosse pensato prima, molte guerre non sarebbero mai iniziate.

Dove ci sono tensioni, non mandiamo soldati. Mandiamo ospedali, come quelli di Emergency. Che diventano punti di contatto, di compromesso. Usiamoli per distribuire sementi, beni agricoli. Per creare reti, relazioni, coesistenza. Serve una cultura della pace.

Non concentriamoci sulle armi, ma su come disinnescare l’odio. Il 90% delle persone sa che le armi vanno usate solo in extrema ratio. Il problema è che manca una cultura della pace. Dove il leone e l’agnello possano pascolare insieme.

Creiamo quelle condizioni. Le Nazioni Unite le conoscono. Ogni anno salvano milioni di persone dalla fame e dalle malattie. Dovremmo esserne orgogliosi. Ho lavorato vent’anni con loro fondi. So pregi e difetti. Ma se ci si avvicina con un intento costruttivo, non distruttivo, si lavora benissimo.

Fare la guerra è la cosa più facile del mondo.
Trovi sempre un generale che ti dice che in due settimane risolve tutto.
Poi ci si impantana. Diamo una chance alla pace. Organizziamola.
Perché la guerra è sempre figlia della vendetta.
E la vendetta non porta mai giustizia.

A cura di Daniele Casolino.

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