Vita Indipendente e Progetto di Vita
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Dall’assistenzialismo all’autodeterminazione: per diritto, non per concessione

Per troppo tempo la disabilità è stata interpretata attraverso la lente dell’assistenza. Una condizione da compensare, un “limite” da gestire, un corpo o una mente da accompagnare là dove la società non era pronta ad accogliere. È in questo contesto che si è sviluppato un sistema fatto di buone intenzioni e soluzioni parziali: servizi residenziali, operatori sociali, contributi economici, modelli di cura standardizzati. Ma se aiutare è necessario, imporre modelli lo è molto meno.
Il paradigma sta cambiando, lentamente ma inesorabilmente. Il concetto di Vita Indipendente, nato dal movimento dei diritti civili negli Stati Uniti e riconosciuto dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, ha spostato il baricentro dell’intervento: non si tratta più di accompagnare chi è “fragile”, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono a ogni persona di scegliere, agire, decidere.
La differenza è profonda. Dove l’assistenzialismo si basa su un presupposto di bisogno, la prospettiva dell’autodeterminazione riconosce un diritto. E un diritto, per definizione, non si chiede per favore né si concede a discrezione: si garantisce.
Cosa significa tutto questo nella vita reale? Significa che il tempo delle persone con disabilità non può essere scandito dai turni dell’assistenza, né il loro spazio abitativo stabilito da protocolli sanitari. Significa che il progetto di vita non è una prestazione, ma un patto sociale. Che la persona ha il diritto di decidere dove vivere, con chi, come lavorare, che tipo di supporto ricevere e da chi.
Non è un passaggio simbolico. È una rivoluzione concreta, fatta di nuove normative – come la Legge 227/2021 e il Dlgs 62/2024 – e di pratiche quotidiane da trasformare. È l’accomodamento ragionevole come standard minimo, l’assistente personale scelto e gestito dalla persona stessa, l’abbattimento delle barriere non solo architettoniche ma culturali.
In questa visione, l’autonomia non è una capacità “naturale” ma un processo abilitante. Non si tratta di essere autosufficienti, ma di poter scegliere. E quando la scelta è libera, allora sì che l’assistenza smette di essere un vincolo e diventa risorsa.
Il futuro dell’inclusione non passa dalla protezione, ma dal riconoscimento. Perché non si tratta di aiutare a vivere, ma di garantire la possibilità di vivere come ciascuno desidera. E questa non è assistenza. È giustizia.
Eppure, mentre molti paesi consolidano un approccio basato sui diritti, negli Stati Uniti l’attuale amministrazione Trump ha imboccato una strada opposta, scegliendo apertamente di ridimensionare o cancellare le politiche di diversità e inclusione. A marzo 2025, il governo francese ha perfino protestato formalmente con una lettera all’ambasciata statunitense, denunciando l’impatto regressivo e discriminatorio di queste scelte. Non siamo più nel campo delle ipotesi: è in atto un attacco ideologico contro ogni principio di pluralismo e rispetto delle differenze.In uno scenario simile, riaffermare che la Vita Indipendente è un diritto inalienabile e non una concessione da bilanciare a piacere politico diventa un’urgenza civile. E ogni voce che si alza in difesa dell’autodeterminazione è oggi più che mai una voce di resistenza democratica.
A cura di Daniele Casolino.
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