In un tempo in cui le parole possono ferire o curare, escludere o includere, Alice Orrù sceglie di usarle come strumenti di trasformazione. Content designer, traduttrice e formatrice, lavora con linguaggi inclusivi e accessibili per aiutare organizzazioni, enti e progetti culturali a comunicare in modo più giusto e accogliente. In questa intervista ci accompagna nel suo percorso personale e professionale, intrecciando Sardegna, migrazione, cura e innovazione sociale. Un dialogo che mette al centro le parole non come ornamento, ma come atto politico e quotidiano di ascolto e cambiamento.
Ciao Alice, ci racconti in breve chi sei, di cosa ti occupi, del tuo lavoro e dei tuoi progetti?
Sono una content designer e traduttrice con due grandi superpoteri: i linguaggi inclusivi e l’accessibilità dei contenuti. Scrivo e traduco testi che raccontano organizzazioni e progetti in modo trasparente, rispettoso e accessibile, aiutandoli a comunicare meglio con tutte le persone. Mi occupo anche di formazione e consulenza per aziende, enti pubblici e realtà culturali che vogliono rendere più inclusivo il proprio modo di comunicare. Dal design dei contenuti al tono di voce, dai microcopy ai testi istituzionali, lavoro perché le parole non siano un ostacolo ma uno spazio di accoglienza.
Come mai hai deciso di intraprendere questo percorso? Che cosa ti motiva e ti interessa veramente?
Sono emigrata dalla Sardegna molti anni fa: sentirmi a casa in vari posti del mondo ha acuito il mio interesse verso la diversità culturale, ma anche fatto evolvere in modo più consapevole e politico il legame con la mia isola di origine. Mi motivano le parole che fanno sentire viste le persone ai margini, quelle che riparano invece di escludere, che accolgono invece di ordinare. Scrivere, e insegnare a scrivere, in modo più giusto e accessibile è per me un gesto radicale, ma quotidiano. È il mio modo di stare al mondo. Mi interessa tutto ciò che trasforma il linguaggio in uno strumento di cura, giustizia e comunità. Per questo ho scelto di intraprendere questo percorso: perché credo servano più spazi dove l’innovazione sia costruita anche a partire dai contenuti, dalle relazioni, dai processi. Non solo dalle tecnologie. Con Apical vedo la possibilità di portare avanti, in modo collettivo, un lavoro che per me è già molto vivo: facilitare cambiamenti reali, dentro le aziende e nei territori, attraverso la formazione, la consulenza, e soprattutto attraverso il linguaggio. Un linguaggio che non parla alle persone, ma con le persone.
Dove vivi e lavori?
Vivo da circa tredici anni in Catalogna, prima a Barcellona città e da qualche anno in un paesino della provincia. Ho aperto Partita IVA qui e ho clienti in molte parti del mondo, ma gran parte del mio lavoro è dedicata a realtà italiane.
Quali sono le criticità più importanti nel tuo territorio? (la regione in cui vivi)
Se devo rispondere per la Sardegna, che è il mio territorio di origine e quello da cui sono emigrata, credo che molte criticità vengano dal suo passato (e in certi sensi presente) di territorio colonizzato. Tra le criticità più urgenti ci sono sicuramente lo spopolamento e la scarsità di opportunità professionali, soprattutto per giovani, donne e persone di gruppi minoritari. Ma ancora prima c’è un senso di isolamento sistemico: geografico, economico, in certe zone anche culturale. Molte decisioni che impattano profondamente l’isola vengono prese altrove, senza coinvolgere davvero le persone che la abitano. Un’altra ferita aperta è quella ambientale e militare: la Sardegna è terra di servitù, di basi, di poligoni. È un’isola bellissima e sfruttata, che vive ancora troppo spesso tra retoriche coloniali e turismo predatorio. Ciò che mi interessa oggi è ripensare la Sardegna non solo come “terra di partenza”, ma come luogo da reclamare anche da lontano. Come territorio di resistenza e immaginazione, che non chiede di essere salvato ma ascoltato.
Nel tuo territorio cosa dovrebbe portare l’innovazione sociale per generare un vero cambiamento?
In Sardegna, secondo me, l’innovazione sociale dovrebbe prima di tutto portare ascolto. Un ascolto vero, che non arrivi già con il modello da applicare, ma che parta dalle relazioni, dai bisogni reali delle persone, e dalla storia dei territori. Innovazione sociale non significa tecnologia o startup calate dall’alto. Significa redistribuzione del potere, accesso alle risorse, possibilità di immaginare una vita degna anche restando. Combattere lo spopolamento non solo con incentivi, ma con diritti: trasporti pubblici che funzionano, internet che arriva ovunque, scuole vive, presidi culturali, sanità accessibile. Credo anche che l’innovazione sociale non possa scindersi dai temi della giustizia: ambientale, economica, di genere. In un territorio come quello dell’isola, dove per decenni si è stati trattati come periferia utile solo a estrarre terre, corpi, forza lavoro, paesaggio, innovare significa riprendersi il centro. Raccontare nuove storie di comunità, cooperazione, mutualismo. E farlo senza dimenticare le lingue, i saperi, le relazioni affettive e politiche che tengono insieme le persone. Perché senza cura, non c’è innovazione. C’è solo un altro modo di occupare spazio.
Quale contributo porti alla nostra comunità? (Apical/Solar)
Mi piacerebbe portare uno sguardo radicalmente attento alle parole: non solo al loro significato, ma anche al loro peso, ai corpi che includono o escludono, alle storie che evocano. Credo nella forza trasformativa del linguaggio quando è usato con cura, ascolto e consapevolezza. Porto con me competenze nella scrittura inclusiva e accessibile, nella facilitazione formativa e nella traduzione, ma anche una sensibilità per il dissenso, per le relazioni non conformi, per i margini. Mi interessa costruire, insieme ad altre persone, spazi di lavoro dove l’innovazione non sia neutralità, ma responsabilità condivisa.
Cosa vedi nel futuro dell’innovazione sociale?
Nel futuro dell’innovazione sociale vedo (e spero) più relazione e meno performatività. Spero in processi che non si misurano solo in metriche ma in legami, ascolti, riparazioni. Vedo l’uscita dall’ottica dell’emergenza e l’ingresso in quella della cura. Vedo un’innovazione che non parte dalle soluzioni, ma dalle domande: chi resta fuori? chi non stiamo ascoltando? cosa possiamo disimparare, per fare spazio ad altro? E soprattutto, vedo (e desidero) un futuro in cui il linguaggio non sia un accessorio, ma parte centrale del cambiamento: perché non può esserci innovazione sociale senza parole nuove, senza narrazioni più giuste, senza possibilità di dire il mondo in modo diverso.
Che consigli daresti a una persona che vuole intraprendere una strada simile alla tua?
Faccio fatica a definire una “strada simile alla mia”, perché il mio percorso è stato, ed è tuttora, accidentato, laterale, costruito spesso per intuizioni che per tappe programmate. Una strada fatta di scelte curiose, a volte controcorrente, quasi mai lineari. Eppure è proprio questo attraversare che mi ha formata. Come persona emigrata e con una famiglia migrante, ho uno sguardo che abbraccia più lingue, più culture e più sensibilità e mi sono spesso trovata in uno spazio “tra”: tra due o più Paesi, tra le lingue, tra ruoli difficili da nominare. Oggi vedo quel “tra” non come una mancanza, ma come un luogo fertile, da abitare con orgoglio e con attenzione. Il consiglio che posso dare è di non avere fretta di incasellarsi, di non avere paura di restare in quel terreno ibrido dove le cose non sono ancora definite. Coltivare l’ascolto, le letture lente, la cura per le parole. E cercare le proprie persone-ponte: quelle che ti aiutano a nominarti, senza giudizio. Mi sento vicina a coloro che stanno costruendo il loro percorso tra più lingue, Paesi o territori professionali e vogliono confrontarsi su come orientarsi nel lavoro culturale, nella scrittura o nella formazione inclusiva: sarò felice di offrire uno scambio, un confronto o una mappa, anche parziale, da costruire insieme.
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