Prova (1)

C’è chi la chiama “decompressione”. Una manciata di giorni al mare, lontano dai turni al fronte, per rifiatare dallo stress post-traumatico della guerra. Non si tratta, però, di operatori umanitari, né di giornalisti rientrati da lunghi reportage in zone di conflitto. A concedersi questa pausa di sollievo sono militari israeliani, alcuni dei quali avrebbero partecipato attivamente alle operazioni a Gaza, nel contesto di un genocidio che già conta decine di migliaia di vittime.

La destinazione scelta per decomprimere? La Sardegna. La Costa Smeralda, per l’esattezza, con i suoi resort di lusso e le promesse di relax. Un riposo che non passa inosservato: la loro presenza è monitorata dalla Digos, che li considera “obiettivi sensibili” e ne assicura la protezione con risorse pubbliche. Fuori dai cancelli dell’hotel in cui soggiornano, però, i militari israeliani hanno trovato attiviste e attivisti – in testa il collettivo Lungoni per la Palestina – che ne denunciano la presenza offensiva e provocatoria, intollerabile nel contesto geopolitico che stiamo vivendo.

La notizia è sconcertante: soldati di un corpo militare accusato di crimini di guerra soggiornano in Costa Smeralda per “decomprimere”, mentre a poche ore di volo si consuma una catastrofe umanitaria in cui le vittime non muoiono solo sotto le bombe, ma anche a causa della fame imposta come strumento di annientamento. L’indignazione cresce se si considera che tutto questo avviene in Sardegna, isola che da decenni sopporta il peso maggiore delle servitù militari in Europa e che ha già conosciuto la presenza delle forze armate israeliane nei propri poligoni.

Non è infatti la prima volta che l’IDF – l’esercito israeliano – transita in Sardegna. Nel 2014, Unione Sarda e Il Manifesto riportavano che, proprio mentre infuriava l’operazione “Protective Edge” su Gaza, i cieli sopra Capo Frasca, nella Sardegna occidentale, erano pronti ad accogliere una nuova esercitazione congiunta tra aeronautica israeliana e italiana. F-15 e F-16 si sarebbero allenati insieme, sganciando “artifizi inerti” – così venivano chiamati, con lessico neutro e tecnico, gli ordigni che pesano fino a una tonnellata.

Dal 2005, infatti, con la ratifica di un accordo bilaterale sulla cooperazione militare, i rapporti tra Italia e Israele si sono intensificati e formalizzati. Non è sempre visibile, ma si muove nei calendari dei Ministeri, nei contratti di fornitura, nei programmi industriali, e nei cieli e poligoni sardi.

Sardegna, laboratorio militare

La Sardegna ospita circa il 65% delle servitù militari italiane. Parliamo di oltre 30.000 ettari di terra, 80 km di coste inaccessibili, tre grandi poligoni permanenti – Salto di Quirra, Capo Frasca, Teulada – e altre aree di utilizzo occasionale intercluse alla popolazione. 

Non è solo la quantità a colpire, ma la qualità: in queste aree si lanciano test missilistici, droni, artiglieria, esercitazioni con munizioni vere, cui partecipano eserciti provenienti da tutto il blocco NATO (e non solo). Proprio ad aprile di quest’anno, per esempio, i poligoni sardi sono stati protagonisti di Mare Aperto, la più grande esercitazione militare del Mediterraneo centrale.

Negli anni, la militarizzazione del territorio è stata al centro di incidenti, inchieste, denunce e innumerevoli problemi per la popolazione. La famigerata e documentata “sindrome di Quirra” ha colpito civili e militari che vivono e lavorano nella zona sud-orientale di Perdasdefogu, tra tumori e altri gravi problemi di salute. Il rapporto tra uso militare del territorio e danni ambientali e sanitari è stato più volte denunciato da comitati civici, associazioni mediche e ambientaliste, ma difficilmente riconosciuto dallo Stato.

Una resistenza radicata

Di fronte a questo scenario, la Sardegna non è una terra passiva. La storia delle servitù militari è anche storia di resistenza dal basso. 

Nel 1976 nasce il Comipa (Comitato paritetico sulle servitù militari), organismo consultivo volto a conciliare le esigenze della Difesa con i piani territoriali regionali. Nel corso degli anni, questo comitato ha spesso espresso pareri contrari all’ampliamento delle aree militari o alla realizzazione di nuove strutture.

Accanto a queste forme istituzionali, si è sviluppata una dinamica rete di movimenti dal basso: antimilitaristi, ecologisti, gruppi autonomi e comitati civici che hanno fatto della lotta contro le servitù un tema centrale. 

Già nel 1969, a Pratobello, la popolazione di Orgosolo occupò i terreni destinati a diventare un nuovo poligono militare, costringendo lo Stato a ritirare il progetto. Negli anni successivi le mobilitazioni si sono moltiplicate: dalle proteste spontanee del 2014 a Capo Frasca, seguite all’incendio causato da un’esercitazione, fino alle grandi manifestazioni convocate dall’associazione A Foras a partire dal 2016, tra cui il blocco del 2019 davanti al poligono di Capo Frasca. Più recentemente, a giugno 2025, un gran corteo di persone ha protestato contro le esercitazioni NATO nella base aeronautica di Decimomannu. 

In tutte queste occasioni di protesta, attiviste e attivisti hanno interrotto o rallentato le esercitazioni, messo in campo forme di disobbedienza civile e costruito contro-narrazioni che legano la lotta antimilitarista alla difesa ambientale, sociale e culturale dell’isola. Le richieste avanzate da questi movimenti sono chiare: bloccare definitivamente le esercitazioni, smantellare i poligoni, ottenere il risarcimento delle popolazioni colpite dall’inquinamento militare e procedere alla bonifica dei territori compromessi.

Alcune di queste associazioni sono le stesse che oggi denunciano il soggiorno dei militari israeliani in Costa Smeralda. In questo contesto, è chiaro come le proteste di questi giorni siano il capitolo più recente di una lunga storia di opposizione politica e territoriale.

Quella che si combatte in Sardegna non è una battaglia simbolica, ma una resistenza concreta e quotidiana contro una colonizzazione militare che da decenni impone vincoli e servitù al territorio. Una resistenza che ci obbliga a domande tutt’altro che astratte: quali vite e corpi consideriamo sacrificabili in nome della sicurezza o del profitto? Quale modello di territorio vogliamo costruire e abitare? E fino a che punto siamo disposti ad accettare che turismo ed economia si intreccino con logiche belliche sempre più visibili e normalizzate? 

Ecco perché la presenza dei soldati israeliani in Sardegna, nel pieno di un’operazione genocidaria, accende una rabbia stratificata e non può essere letta come un semplice episodio turistico. La distopia si compie se si pensa che tutto questo avviene con risorse pubbliche: persone e mezzi dello Stato italiano messi al servizio della protezione di militari stranieri, mentre le comunità sarde restano esposte ai costi della militarizzazione.

È proprio in questa sproporzione, tra chi paga e chi viene protetto, che si rivela la natura politica della vicenda: siamo di fronte alla manifestazione plastica di un potere che si ostenta, che si sottrae al giudizio e si riposa, letteralmente, mentre altrove l’orrore, il disprezzo della vita e del diritto internazionale incalzano. È lo scandalo di un privilegio che si mostra senza pudore, la cartolina perfetta dell’oscena ipocrisia dei nostri governi.

Nella prudenza delle autorità, che parlano di “dipendenti civili” o “turisti privati” che “rischiano atti di intolleranza”, si consuma l’ennesima frattura tra popolazione sarda e potere centrale. E mentre il governo Meloni minimizza, chi vive e difende la Sardegna sa benissimo che non è la prima volta. Sta a noi, collettivamente, continuare a lottare per fare in modo che sia l’ultima.

A cura di Alice Orrù.

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