“Boys don’t cry”: Viaggio nella cultura maschile cisgender e tra le radici della violenza di genere in Italia
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Di cosa è fatta la violenza di genere? Di urla, silenzi, pugni, paura. Ma anche – e soprattutto – di parole, gesti appresi, modelli ripetuti, battute apparentemente innocue, pubblicità virali e storie mai raccontate. È fatta di cultura, e in particolare di una cultura maschile che per secoli si è nutrita di dominio, controllo e invisibilità emotiva. In Italia, come altrove, la violenza di genere non nasce da un vuoto, ma da una presenza ingombrante: quella di una mascolinità tossica, data per scontata, mai interrogata.
“L’uomo che non deve chiedere mai.” Non è solo una battuta da pubblicità, né una semplice frase ad effetto. È un architrave invisibile e solidissimo che regge da generazioni l’impalcatura della mascolinità nella nostra società. Questo modello si è sedimentato nel linguaggio, nelle relazioni, nella scuola, nella famiglia, nei media. Un uomo, per essere riconosciuto come tale, non deve mostrare debolezza, non deve esprimere dolore, non può chiedere aiuto. Deve essere autosufficiente, competitivo, sessualmente attivo, emotivamente controllato. Il prezzo di tutto questo? L’alienazione affettiva, l’analfabetismo emotivo, e nei casi più gravi, la trasformazione della frustrazione in controllo, della vulnerabilità in aggressività, della relazione in possesso.
La mascolinità cisgender – ovvero quella degli uomini che si identificano con il genere assegnato loro alla nascita – è stata storicamente costruita sulla negazione dell’emotività. “I maschi non piangono”, “non fare la femminuccia”, “sii un uomo”. Frasi che, come osserva
Alessandro Giammei nel suo Parlare fra maschi, diventano mura invisibili che dividono ciò che un uomo “può” essere da ciò che “non deve” mai mostrare.
In Italia, la violenza maschile contro le donne è un fenomeno endemico. Secondo ISTAT, una donna su tre ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Ma è solo il riflesso di una cultura che plasma fin dall’infanzia. I dati sulla percezione della violenza evidenziano come molti uomini italiani non riconoscano il controllo, la gelosia o l’isolamento come forme di abuso. La violenza non si manifesta solo con i colpi, ma anche con lo sguardo, il linguaggio, le aspettative di genere. Come ricorda Audre Lorde, poetessa e attivista afroamericana, “non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Per cambiare la cultura della violenza, bisogna innanzitutto mettere in discussione le fondamenta del pensiero dominante.
Giammei mette il dito su questa ferita culturale: la mancanza di spazi, linguaggi, rituali e riferimenti per un maschile diverso. Non basta dire “gli uomini devono cambiare”. Bisogna elaborare nuovi strumenti, contesti, processi. L’educazione alla parità non può essere una lezione in più a scuola: deve diventare una nuova grammatica educativa che attraversa tutte le esperienze formative, dai primi anni di vita fino all’età adulta.
La prevenzione diventa un processo concreto che inizia molto prima che la violenza si manifesti. Comincia con le prime parole che insegniamo ai bambini, con i giochi che offriamo loro, con i silenzi che permettiamo quando si parla di emozioni, corpo, desiderio, rispetto.Ecco perché è fondamentale integrare nei percorsi educativi, a ogni livello scolastico, una vera educazione affettiva e sessuale, continua, non moralistica, non emergenziale.
Educare all’affettività significa insegnare a riconoscere le proprie emozioni, a esprimerle, a gestire il conflitto senza annullare l’altro. Significa mostrare ai bambini che la rabbia è un’emozione legittima, ma che non giustifica l’umiliazione. Che la gelosia non è amore, che l’altr* non è una proprietà. Significa rendere comprensibile, fin da piccoli, cosa sia il consenso, il rispetto del corpo altrui, la reciprocità nelle relazioni.
Psicologi come Alberto Pellai insistono da anni sulla necessità di una pedagogia affettiva che accompagni i ragazzi nella comprensione dei propri sentimenti e nella gestione delle proprie relazioni. Pellai sottolinea come la mancanza di questa educazione conduca, nei casi più estremi, all’incapacità di accettare un rifiuto, alla convinzione che il possesso sia un diritto, e che il dolore sia da mascherare con l’aggressività.
Anche Daniele Novara, pedagogista esperto di conflittualità infantile, ricorda che il conflitto è un’occasione educativa, e non un fallimento da reprimere. Ma se i bambini – soprattutto i maschi – non vengono educati a gestire il dissenso, a tollerare la frustrazione, a negoziare con l’altro, cresceranno adulti che non sapranno distinguere la delusione dalla perdita del potere. E spesso, cercheranno di ripristinarlo attraverso la forza. E allora, immaginare scuole che non abbiano paura di parlare di corpo, emozioni, relazioni; immaginare docenti formati per gestire discussioni complesse sulla mascolinità, sul consenso, sull’identità; immaginare che l’educazione sessuale non sia solo biologia ma anche cultura, etica, linguaggio: questo non è utopia, è l’unico argine reale alla diffusione di modelli tossici.
Il linguaggio costruisce la realtà. Non è solo uno strumento neutro per descrivere il mondo, ma una forza attiva che lo plasma. Le parole che scegliamo – o che ripetiamo senza pensarci – definiscono i limiti di ciò che possiamo pensare, provare, diventare. E il linguaggio della mascolinità, soprattutto in Italia, è ancora profondamente radicato in una visione gerarchica e binaria del mondo. Basta ascoltare le conversazioni quotidiane, leggere le pubblicità, osservare come vengono raccontati gli uomini nei film, nei social, nei giornali: la virilità è forza, è durezza, è controllo. La debolezza, il pianto, il dubbio, l’insicurezza sono ancora considerati tratti “femminili” , e quindi da evitare, da ridicolizzare, da reprimere.
Quando diciamo a un bambino “non fare la femminuccia”, non stiamo solo umiliando un comportamento – stiamo insegnando che essere donna, o avere caratteristiche associate al femminile, è sbagliato. Quando si dice “un vero uomo non piange”, si sta insegnando che l’emotività è una colpa. Quando si ironizza su chi parla dei propri sentimenti, si costruisce il silenzio emotivo che sarà, domani, terreno fertile per frustrazione e possesso.
In questo scenario, la narrazione è una chiave di svolta potentissima. Se le parole creano realtà, allora possiamo usare altre parole per crearne di nuove. Lo abbiamo visto con il successo planetario di Storie della buonanotte per bambine ribelli: un libro nato per raccontare alle bambine che ci sono infinite possibilità di essere donne – coraggiose, libere, brillanti, nonostante i divieti del mondo. E se cominciassimo a raccontare anche ai bambini storie di uomini che piangono, che si prendono cura, che si innamorano senza possedere, che falliscono senza distruggere?
Pensatrici come Audre Lorde hanno evidenziato come la “cura” possa essere uno strumento politico. Prendersi cura di sé, delle proprie emozioni, del proprio linguaggio, è un atto di resistenza contro una società che disumanizza. Aja Monet, poetessa e attivista afro-caraibica, parla spesso del bisogno di una rivoluzione affettiva, in cui anche gli uomini possano essere vulnerabili senza per questo perdere valore.
Una nuova narrativa maschile è possibile. E necessaria. Serve a sottrarre potere alla violenza, ma anche a restituire umanità agli uomini stessi, troppo spesso prigionieri di ruoli che non hanno scelto e da cui non sanno uscire.
Il linguaggio non è mai neutro. Come affermava Roland Barthes, ogni segno culturale – anche il più semplice, anche una pubblicità o una battuta – porta con sé un significato sociale. Quando diciamo “uomo vero”, stiamo usando un codice che, nel nostro immaginario collettivo, è legato a forza, controllo, autosufficienza. E tutto ciò che devia da quel codice – l’emotività, la dolcezza, il bisogno dell’altro – viene vissuto come una trasgressione, un errore, una debolezza. Questo è il cuore della mitologia del maschile, una mitologia quotidiana, come la chiamava Barthes, fatta di piccoli racconti, spot pubblicitari, canzoni, proverbi, silenzi.
Già il sociologo Pierre Bourdieu, nel suo lavoro La domination masculine (1988), ci metteva in guardia da un’altra trappola: la “violenza simbolica”, ovvero quel potere invisibile che si esercita attraverso le rappresentazioni, le aspettative, le norme sociali. Una violenza non dichiarata, ma profondamente efficace, che fa sì che gli uomini si sentano “autorizzati” a dominare, e le donne “educate” ad accettare. È una violenza che si esercita tramite il linguaggio, e il vivere sociale. E proprio perché è simbolica, spesso è più difficile da smascherare, ma non meno pericolosa.
Nel campo dell’antropologia, David Le Breton ha lavorato sul tema del corpo come costrutto culturale, mostrando come il maschile sia legato a una narrazione del corpo come “strumento d’azione”, spesso dissociato dalla fragilità e dalla cura. Questo allontana gli uomini dalla coscienza del proprio sentire e li spinge verso un’esteriorizzazione della crisi sotto forma di competizione o aggressività. In molte culture, comprese quelle occidentali, il corpo maschile è pensato come armatura, non come luogo da proteggere, da ascoltare, da conoscere. Questa disconnessione è un terreno fertile per l’incapacità di ascoltare anche il corpo e il sentire dell’altro.
Se parliamo dell’amore come di una “battaglia da vincere”, o del sesso come una “conquista”, non stiamo usando immagini poetiche: stiamo strutturando una visione aggressiva e proprietaria della relazione. Ecco perché è così urgente rivedere il linguaggio anche nelle sue forme più sottili, perché ciò che è detto spesso diventa ciò che è pensato, e ciò che è pensato diventa ciò che è agito.
Dal punto di vista educativo, ciò impone una riflessione sul potere performativo del linguaggio e sulla necessità di offrire a bambini e adolescenti non solo informazioni, ma modelli narrativi alternativi. Servono libri, film, canzoni, personaggi, docenti e figure adulte che mostrino ai giovani che ci sono molti modi di essere uomini, e che nessuno di questi prevede la soppressione dell’altro. In questo senso, la proposta non è solo pedagogica, ma politica e culturale: è una rivoluzione narrativa. E come ogni rivoluzione che funziona, parte dalle storie che ci raccontiamo. Per questo non basta dire “basta violenza”: serveraccontare altre possibilità. Serve cambiare le favole, le battute, i riti scolastici, le parole quotidiane. Serve decostruire la semiotica del potere maschile che si esprime anche dove meno ce ne accorgiamo.
Anche la musica, la poesia, i testi delle canzoni che ogni giorno passano nelle cuffie di milioni di adolescenti, contribuiscono a modellare l’immaginario affettivo e sessuale. La trap italiana, che oggi domina le classifiche e l’attenzione dei più giovani, è un osservatorio potente – e inquietante – dei modelli di mascolinità che si stanno trasmettendo. In molti testi trap emergono costantemente immagini di virilità tossica, di possesso, di superiorità
economica ed emotiva sull’altro, quasi sempre declinato al femminile come oggetto: “lei è mia”,“non piangere”, “stai zitta”, “sei come tutte le altre”. Questo linguaggio, spesso mascherato da provocazione artistica, normalizza l’umiliazione, la riduzione dell’altro a corpo e conquista, e rafforza l’idea che la forza, anche emotiva, stia nella freddezza, nella chiusura, nella violenza simbolica. È un’estetica del dominio, tanto più pericolosa quanto più si intreccia con contesti di fragilità educativa e mancanza di modelli alternativi.
A questa narrazione dominante rispondono voci di rottura come Billie Eilish con la sua celebre Bad Guy, dove la cantante si appropria e ribalta ironicamente i codici della dominazione maschile, smascherandone il vuoto e la caricatura. Oppure autrici italiane come Alessandra Carnaroli, con il suo recentissimo e disturbante libro Non si tocca la frutta nei supermercati però i culi nelle metropolitane e simili, che attraverso un linguaggio crudo, sincopato e spietato, mette a nudo l’assurdità e l’ipocrisia della nostra cultura patriarcale, che protegge il decoro delle merci più dei corpi delle donne.
Queste opere non sono semplici provocazioni: sono atti di resistenza culturale, che aprono spazi di riflessione là dove il mainstream perpetua lo status quo. Mostrano che un altro modo di raccontare, e quindi di pensare e vivere il desiderio, è possibile. Ma per far sì che queste narrazioni diventino accessibili, efficaci, trasformative, bisogna inserirle nei percorsi educativi, nelle scuole, nei centri culturali, nei progetti territoriali.
È qui che entrano in gioco le azioni concrete. Interventi di formazione nelle scuole, percorsi di educazione sentimentale e sessuale a partire dalla scuola primaria, gruppi di parola e confronto per ragazzi e uomini, coinvolgimento di artisti e autori contemporanei in laboratori espressivi. Ma anche programmi di formazione per insegnanti, operatori sociali, genitori, per aiutarli a riconoscere e decostruire gli stereotipi con cui anche loro sono cresciuti. È fondamentale che la prevenzione della violenza diventi una responsabilità collettiva e quotidiana, non solo un’emergenza istituzionale.
Dobbiamo passare dall’intervento riparativo al progetto educativo, dalla cultura della punizione alla cultura della trasformazione. Solo così potremo costruire comunità in cui le relazioni non siano terreno di sopraffazione, ma spazio di libertà reciproca.
Perché la libertà, come l’uguaglianza, si costruisce anche così: educando all’amore.
A cura di Daniele Casolino
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