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Oggi la nostra alimentazione è sempre più omologata: a tavola vediamo quasi sempre gli stessi colori e sapori, frutto di un modello agricolo industriale che privilegia quantità e standardizzazione. Questo però ha un costo enorme: la perdita di biodiversità.

Quando parliamo di biodiversità, non intendiamo solo quella che caratterizza gli habitat naturali e le specie selvatiche, ma anche il risultato della relazione della selezione naturale e artificiale messa in atto dall’uomo a partire dalla nascita dell’agricoltura. È grazie a questa ricchezza invisibile che possiamo nutrirci, difenderci dai parassiti e mantenere un’agricoltura resiliente.

Eppure i dati parlano chiaro: i dati pubblicati nel Report FAO del 2019 ci dicono che delle 6000 specie vegetali coltivabili, quelle effettivamente prodotte sono circa 200, e il 66% della produzione agricola globale è rappresentato da solo 9 specie. Anche nell’allevamento i dati ci raccontano una storia molto simile. Una riduzione drastica che ci espone a rischi enormi: terreni impoveriti, maggiore vulnerabilità ai cambiamenti climatici e minori possibilità di reagire a nuove malattie.

Il legame tra agricoltura e salute non è nuovo: già 11.000 anni fa, con l’aumento delle popolazioni agricole sedentarie, si diffusero le prime epidemie. Oggi l’impatto continua, aggravato dalla deforestazione, dalle monocolture e dal sovrasfruttamento.

Serve un cambio di prospettiva: la biodiversità non è un lusso estetico, ma il fondamento della nostra sicurezza alimentare. Difenderla significa preservare il futuro, garantire resilienza ai sistemi agricoli e proteggere la salute delle generazioni che verranno.

A cura di Evelina Isola.

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