Prova (1)

C’è un confine sottile tra ciò che il mondo chiama conoscenza e ciò che preferisce dimenticare. Nei secoli, a vegliare su quel margine, ci sono sempre state loro: le streghe.

Non incarnazioni del male ma custodi di saperi respinti — erbe, riti, linguaggi, cosmologie hanno portato a roghi, condanne, un modo per dire che solo un certo tipo di sapere meritava di esistere. Ora non si tratta di riscattare la figura della strega, ma di guardare con occhi nuovi lo sguardo che l’ha giudicata. Perché ogni volta che un sapere viene espulso, la conoscenza perde una parte di sé.

La metafora dei margini attraversa non solo il pensiero: anche lo spazio urbano è segnato da questo processo. Le città rappresentano mappe del potere: costruiscono centri riconosciuti e lasciano ai bordi ciò che non si conforma. Quartieri invisibili, terreni sospesi, comunità che resistono agli schemi. Ogni piano regolatore è anche un piano simbolico, decide chi abita il centro e chi resta ai margini. Eppure, è proprio dalle periferie che spesso arrivano le invenzioni, le contaminazioni, le energie più vitali. Lì, dove la forma non è ancora chiusa, la città si rinnova.

Così accade anche per la conoscenza che cresce dove l’ordine vacilla, dove l’imprevisto apre spiragli. Senza i margini, la città si irrigidisce; senza il dissenso, la ragione smette di respirare.

Poche settimane fa, la parola “strega” è tornata a circolare. Francesca Albanese, relatrice ONU per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, è stata chiamata così per le sue posizioni scomode. Un insulto antico, ma rivelatore: il linguaggio non dimentica le sue paure.
Chi è, oggi, una strega? Non più chi prepara pozioni nella notte, ma chi maneggia un sapere non allineato. Chi non si piega alla logica dominante — che sia un’attivista, una scienziata, una politica, o chiunque osi pronunciare una parola dissonante.

Chiamare “strega” qualcuno significa dire: ciò che sai non appartiene al nostro mondo. È un modo per segnare un confine: dentro, la verità riconosciuta; fuori, il sapere sospetto, la differenza, l’eresia.

Nelle vite delle streghe c’erano erbe, strumenti, gesti quotidiani. Un mondo di saperi non scritti, nati dall’esperienza, dal corpo, dalla relazione con il mondo. Quando questi saperi sono stati repressi, non è scomparso solo un modo di curare, ma un modo di pensare: ciclico, intuitivo, comunitario.

Difendere i margini del sapere non significa accettare tutto, né confondere il vero con il falso. Significa riconoscere che la razionalità non è un tempio chiuso, ma una città in divenire. Una città che cresce grazie alle sue periferie, ai sentieri laterali, ai luoghi dove le idee ancora si mischiano e si contraddicono. Ogni volta che escludiamo una voce scomoda, non proteggiamo la conoscenza, la impoveriamo.Il sapere, come una città viva, cresce dove non lo controlliamo del tutto. Nelle sue periferie si accendono fuochi, si intrecciano visioni, si immaginano nuovi centri.
È lì, ai margini, che la conoscenza torna a nascere.

A cura di Elisa Fiabane.