Comuni commissariati, diritti sospesi
inclusione e diritti Innovazione sociale solar
Quando il sociale resta in secondo piano. Anche quando i soldi ci sono.
Il 5 novembre 2025 il Ministero dell’Interno ha firmato un decreto che, in poche righe molto tecniche, ha fatto una cosa enorme: ha dichiarato “commissariati” oltre 3.600 Comuni italiani perché nel 2024 non hanno utilizzato o certificato integralmente circa 715 milioni di euro destinati a servizi sociali, asili nido e trasporto scolastico per studenti con disabilità. I soldi c’erano, vincolati a raggiungere i Livelli essenziali delle prestazioni (i famosi LEP) su alcuni diritti minimi: più posti al nido, più assistenti sociali, più accessibilità per i bambini e i ragazzi con disabilità. Non essendo stati spesi o rendicontati, il Viminale ha nominato come “commissari” gli stessi sindaci, imponendo loro scadenze rigide per rimettersi in pari. Sembra una storia di burocrazia, ma per me parla soprattutto di come la politica guarda – o non guarda – al sociale.
Quando penso a questo decreto, non riesco a vederlo come un atto neutro pubblicato in Gazzetta. Mi vengono in mente volti, più che numeri. Una coppia che si sente ripetere per l’ennesima volta che al nido pubblico non c’è posto, “magari l’anno prossimo”. Un genitore che accompagna il figlio con disabilità a scuola ogni mattina, sapendo che il trasporto scolastico dovrebbe esserci ma “per il momento non è attivo”. Un figlio di cinquant’anni che ha lasciato il lavoro per assistere la madre non autosufficiente, e che quando prova a chiedere aiutoi trova solo moduli, bandi, sportelli chiusi, risposte vaghe.
È con queste persone nella testa che ho letto il testo secco del decreto del 5 novembre. Dice, in sostanza, che i Comuni che non hanno inviato le certificazioni o che hanno dichiarato di non aver raggiunto gli obiettivi di servizio vengono commissariati su tre capitoli: servizi sociali, asili nido, trasporto scolastico per studenti con disabilità. Il commissario non è un estraneo calato dall’alto, ma il sindaco in carica, nominato a titolo gratuito. Ha trenta giorni per inviare le certificazioni mancanti alla piattaforma nazionale e sessanta giorni per presentare un cronoprogramma concreto per raggiungere i livelli minimi previsti. Se continua a non farlo, allora può arrivare un commissario prefettizio esterno e le somme non utilizzate possono essere recuperate.
Dal punto di vista formale è tutto ineccepibile. Dal punto di vista umano, però, il punto dolente per me è un altro: perché lo Stato è costretto a scrivere un decreto per ricordare a migliaia di amministrazioni che quei soldi non erano un bonus, ma diritti minimi da garantire? Perché è servito un atto così forte per dire che nidi, servizi sociali e trasporto scolastico per gli alunni con disabilità non sono “progetti speciali”, ma fondamenta di una comunità?
Da psicologo e da persona che lavora ogni giorno accanto a caregiver, famiglie, persone con disabilità e operatori, faccio fatica a liquidare questa vicenda come un semplice problema di burocrazia. Certo, conosco bene la carenza di personale nei Comuni, la fatica dei tecnici, il peso del PNRR, dei bandi, delle piattaforme digitali. L’ho visto e lo vedo nei territori: uffici esausti, funzionari che fanno quello che possono. Ma questa spiegazione non basta.
C’è qualcosa di più profondo: in moltissimi contesti, il sociale non è percepito come politicamente utile. Una piazza rifatta, una rotonda nuova, un evento di punta hanno un ritorno di immagine immediato. Si inaugurano, si fotografano, si mettono sui social. Un posto in più al nido no. L’assunzione di un’assistente sociale difficilmente finisce sulla prima pagina del giornale locale. Il pulmino che porta a scuola tre ragazzi con disabilità non si presta a grandi tagli di nastro. Sono interventi quotidiani, silenziosi, che cambiano davvero la vita delle persone ma producono un consenso lento, poco spettacolare.
Così succede che, mentre le famiglie continuano a riorganizzare i propri equilibri fra permessi, nonni arruolati all’ultimo minuto, baby sitter pagate a caro prezzo, in molti Comuni i fondi destinati al sociale vengono trattati come l’ennesimo adempimento, una pratica da sistemare quando si trova il tempo. Fino a quando arriva un decreto che dice, brutalmente: quei soldi non erano un accessorio. Erano LEP. Erano i minimi sindacali della cura.
C’è un’immagine che trovo quasi grottesca, e che pure è la realtà: lo Stato che nomina il sindaco commissario di se stesso. È come se dicesse: “Non hai ritenuto prioritario occuparti abbastanza di nidi, servizi sociali e trasporto disabili? Da oggi sei formalmente commissariato su questi temi, con scadenze e controlli”. Da un lato, meno male: è un segnale forte, un richiamo a considerare il sociale un obbligo, non un favore. Dall’altro, fa impressione che per ricordare a un’amministrazione che deve garantire il diritto di un bambino ad andare a scuola o a una madre a tornare a lavorare serva un atto di quasi-emergenza.
Se allargo lo sguardo, vedo che questo decreto non è un fulmine isolato. Fa eco ad altre crepe del nostro sistema. Penso alla vicenda della legge nazionale sul caregiving familiare, ai fondi giudicati insufficienti dalle stesse associazioni che rappresentano chi, ogni giorno, si fa carico di un familiare non autosufficiente. Penso ai progetti di vita indipendente che in certi territori funzionano e in altri non partono mai. Penso ai nidi, alla retorica sulla denatalità e alla distanza tra le campagne sul “fare figli” e la realtà delle coppie che non vedono servizi su cui appoggiarsi.
In tutti questi casi il copione è simile: da una parte una grande retorica sulla cura, dall’altra la difficoltà cronica di trasformarla in infrastruttura concreta. La particolarità del decreto del 5 novembre è che, qui, non è nemmeno in gioco la mancanza di risorse. Le risorse, in questo caso, c’erano. Sono state lasciate ferme o non rendicontate. Questo, per me, è il segnale più forte di una distanza culturale e politica.
Nel mio lavoro non ho nessuna voglia di dipingere sindaci e funzionari come “i cattivi”. So bene cosa significhi stare stretto fra norme complesse, personale ridotto, aspettative altissime. Ma credo che dobbiamo avere il coraggio di dirci che non è solo una questione di mani che mancano: è una questione di sguardo. Finché la cura resterà in fondo all’agenda, dietro le opere visibili, ci sarà sempre qualcosa di più urgente da finanziare prima di un pulmino, di un’assistente sociale, di una sezione in più al nido.
E allora questo decreto, nella sua lingua tecnica, per me diventa una cartolina scomoda che ci chiede di scegliere. Non basta più parlare di LEP, di inclusione, di natalità. Dobbiamo decidere che cosa consideriamo davvero sviluppo: un nuovo arredo urbano o la possibilità, per una madre, di tornare al lavoro sapendo che il figlio ha un posto al nido pubblico? Un grande evento in piazza o la certezza che un ragazzo con disabilità abbia un trasporto scolastico stabile, tutti i giorni? Un parcheggio multipiano o un servizio sociale in grado di accompagnare con continuità le famiglie fragili?
Ogni volta che, in un progetto, vedo accendersi anche solo un pezzo di questa infrastruttura – un gruppo di sostegno per caregiver che funziona, un laboratorio per l’autonomia che non viene interrotto dopo pochi mesi, un servizio educativo stabile – vedo cambiare le persone. Vedo anche la fatica di chi prova a farlo nonostante tutto: operatori, amministratori, associazioni che ci credono e che sanno benissimo quanto sia controcorrente mettere la cura al centro.
Forse il senso più profondo del decreto del 5 novembre, al di là dei tecnicismi, è proprio questo: ci mette davanti all’evidenza che non è più accettabile lasciare dormire centinaia di milioni destinati a chi ha più bisogno. Ci ricorda che il sociale non è un accessorio dell’azione pubblica, ma la sua cartina di tornasole. La vera conversione che ci viene chiesta non è solo quella dei sistemi informatici o delle procedure di rendicontazione, ma dello sguardo: smettere di trattare la cura come margine burocratico e riconoscerla come centro politico.
Finché non faremo questo passo, potremo anche moltiplicare i decreti, ma continueremo a lasciare sospesi diritti che sulla carta chiamiamo essenziali e nella pratica affidiamo, ancora una volta, all’eroismo silenzioso delle famiglie.
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