Prova (1)

Negli ultimi anni la crisi climatica è uscita dai confini della scienza e della politica per entrare, con forza, nella sfera più intima dell’esperienza umana. Oggi sappiamo che non si tratta solo di un’emergenza ambientale, ma di una vera e propria crisi di salute pubblica e mentale, che tocca la vita quotidiana, le relazioni e perfino il modo in cui pensiamo.

L’aumento degli eventi estremi, la perdita di biodiversità e l’instabilità del clima producono effetti psicologici profondi: ansia, senso di lutto, impotenza, solastalgia.
Anche chi non vive direttamente un disastro naturale può sentirsi sopraffatto da un dolore diffuso, da un senso di perdita collettiva difficile da nominare. È il segnale che il cambiamento climatico non agisce solo fuori di noi, ma anche dentro di noi.

L’ambiente che muta influenza la nostra mente: modifica le percezioni, le capacità cognitive e persino le nostre decisioni. Le ricerche dimostrano che l’aumento della CO₂ o del calore ambientale può ridurre la concentrazione e la lucidità mentale, e aumentare aggressività e tensione. In altre parole, il clima non è solo un contesto: è un agente psicologico che ci attraversa e ci plasma.

La psicologia climatica si occupa proprio di questo: comprendere l’intreccio tra mente e ambiente, tra emozioni e trasformazioni globali.
Di fronte all’enormità del problema, la mente umana mette in atto meccanismi di difesa: nega, minimizza, distorce. È un modo per proteggersi da una realtà che appare troppo grande per essere affrontata. Ma solo riconoscendo questa paura possiamo trasformarla in consapevolezza, e l’angoscia in azione collettiva.

I cambiamenti climatici toccano anche la sfera culturale. Quando un paesaggio scompare, con esso si perde un linguaggio, un modo di nominare il mondo, una memoria condivisa.
Le lingue nascono dall’esperienza del luogo: i popoli che vivono la neve, il deserto o la foresta hanno parole uniche per descrivere quelle realtà. Quando l’ambiente si altera o scompare, anche le parole si estinguono, e con esse i legami che ci uniscono alla Terra.
La perdita di biodiversità è dunque anche perdita di diversità linguistica, culturale e identitaria.

In questo scenario emerge una sfida profonda: superare la cultura della non-cura, quella che ha alimentato per secoli l’illusione di una separazione tra l’essere umano e la natura.
L’idea di poter dominare il mondo naturale ci ha portati a consumarlo, e insieme a indebolire la nostra empatia collettiva. La logica neoliberale del “possedere” ha sostituito quella del “prendersi cura”. Ma la cura – verso sé, verso gli altri e verso la Terra – è oggi l’unico linguaggio in grado di ridare significato al futuro.

Riconnetterci con la natura non è un gesto romantico, ma un atto politico e culturale. Significa accettare che il nostro equilibrio mentale dipende dal benessere del pianeta, e che la giustizia climatica passa anche attraverso la salute psicologica delle comunità.

Il cambiamento climatico non è solo una sfida ambientale: è una crisi di senso, che ci invita a ripensare chi siamo e come vogliamo abitare il mondo.
Perché, quando la natura si ammala, anche noi ci ammaliamo.
E solo una nuova cultura della cura potrà guarire entrambe.

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A cura di Lorena Piccinini.