Toponomastica e memoria: leggere le città per capire la storia
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“Che ambaradan!” – l’abbiamo sentito o detto almeno una volta, senza pensarci troppo. Nel linguaggio comune, è diventato sinonimo di confusione, di caos ma in realtà “Amba Aradam” è il nome di una montagna etiope, e soprattutto di una delle battaglie più violente della guerra coloniale italiana. Nel 1936, durante quella campagna, l’esercito fascista usò gas vietati dalla Convenzione di Ginevra per sterminare la resistenza etiope. Quel passato, come molti altri legati all’espansionismo coloniale e al fascismo, non è scomparso: abita ancora oggi nelle nostre città, nei nomi delle strade, delle piazze, delle scuole. Lo attraversiamo ogni giorno senza notarlo e come ci ricorda la storica Giulia Albanese (Università degli Studi di Padova), commentando il progetto di mappatura dei luoghi fascisti in Italia promosso dall’Istituto Parri, non possiamo più ignorarlo, dobbiamo anzi domandarci che rapporto intratteniamo con la storia di quel periodo, coinvolgendo la comunità nel prendere atto delle scelte valoriali che ha compiuto l’Italia repubblicana.
A Padova, nel quartiere Palestro, sono appena state affisse targhe esplicative in alcune vie che richiamano episodi e personaggi della guerra coloniale italiana: via Macallè, piazza Toselli, via Amba Aradam. Un gesto apparentemente piccolo, che può però veicolare un enorme valore: restituire alle cittadine e ai cittadini la complessità di una storia che per troppo tempo è stata semplificata, rimossa o idealizzata. Come sottolineato dallo storico Angelo Del Boca, «l’Italia ha rimosso per decenni il proprio passato coloniale, costruendo un mito autoassolutorio: quello degli ‘italiani brava gente’», ma i numeri raccontano altro: durante la guerra d’Etiopia del 1935-36, l’Italia utilizzò sistematicamente il gas mostarda (vietato dalla Convenzione di Ginevra del 1925), bombardò ospedali della Croce Rossa e sterminò interi villaggi, con un bilancio stimato di centinaia di migliaia di morti civili.
L’iniziativa patavina, promossa da varie associazioni del territorio in collaborazione con il Comune, serve a dare un contesto a nomi che altrimenti rischiano di normalizzare un passato di violenza, supremazia e razzismo. Non si tratta di cancellare, quanto di storicizzare, di “completare”, per usare ancora una volta le parole di Gianni Rodari, che già nel 1960 sottolineava la necessità di non svuotare di senso la memoria per non ripetere gli errori del passato.
Ogni giorno, infatti, attraversiamo vie, piazze, rotonde. Leggiamo i nomi sulle targhe e raramente ci chiediamo chi o cosa rappresentino. Eppure, proprio quei nomi disegnano la geografia simbolica delle nostre città: raccontano chi siamo, o chi abbiamo scelto di essere come collettività.
Quel passato di coercizione, di schiavitù e sopraffazione non è solo “un ricordo”: è ancora presente e se non lo discutiamo, rischia di condizionare anche il futuro. Lo dice bene la scrittrice Igiaba Scego, da anni attiva nel ripensare la memoria pubblica:
“Solo osservandola si capiscono tante cose della nefasta visione che il fascismo aveva del mondo, soprattutto di quei popoli che erano malauguratamente finiti sotto il suo dominio. Anche qui in Italia è arrivata l’ora di costruire monumenti dedicati a schiavi, colonizzati, vittime del fascismo.”
In Occidente, il dibattito sui monumenti con un portato storico “pesante” si riapre ciclicamente, spesso dopo un’azione pubblica: una protesta, una rimozione, una dedica. Cosa fare di queste tracce? Rimuoverle? Reinterpretarle? Rinominarle? Dalla statua di Edward Colston abbattuta a Bristol nel 2020, ai pannelli storici nel quartiere Matonge di Bruxelles, fino alle intitolazioni “decolonizzate” a Berlino e alle proposte per il quartiere Africano di Roma, tante città stanno cercando di non eludere la storia, ma rileggerla insieme.
In questo contesto, il 25 aprile non è solo una data da commemorare: è una ricorrenza che ci interroga sul presente, su chi viene ricordato ma anche su chi rimane invisibile e su quali narrazioni vengono proposte negli spazi pubblici. Le targhe affisse a Padova, come in altre città, riportano la storia tra le mani di chi vive la città, e permettono di riflettere su quale sia il ruolo della memoria in una democrazia. Se, come scrive Scego, “la memoria non è mai neutra”, sta a noi decidere come usarla: come alibi per dimenticare, o come strumento per costruire una società più consapevole e giusta. Ecco perché intervenire sulla toponomastica – anche solo con targhe esplicative – significa iniziare a riscrivere il paesaggio urbano come spazio democratico, inclusivo, plurale, antifascista.
A cura di Elisa Fiabane
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